La Storia siamo Noi – DOMENICO “MENCHINO” NERI

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Con il nuovo blog, nasce una nuova rubrica legata alla storia del nostro Arezzo: “La storia siamo Noi” nella quale verranno raccontati giocatori, allenatori, presidenti, partite ed eventi che riguardano il Cavallino Rampante.

Per aprire non potevamo che scegliere la bandiera delle bandiere: Domenico “Menchino” Neri con cui abbiamo fatto una bella chiacchierata.

DOMENICO “MENCHINO” NERI

Se ad Arezzo nasci Domenico in pochi giorni ti trasformi in Menchino, se poi giochi al pallone per tutti sei Menchino Neri, la più grande bandiera della nostra storia calcistica. Mentre Meroi appartiene ad un passato tra storia e leggenda, così come ancor prima i fratelli Pignattelli, Menchino rappresenta ancora il presente nella mente di tutti noi e, soprattutto, ha spaccato in due la storia dell’Arezzo, quel fatidico 9 giugno 1985, entrando di diritto nell’Olimpo del calcio aretino.

Quando si parla di Domenico Neri il pensiero corre veloce alla partita contro il Campobasso in un Comunale stracolmo di persone che aspettavano la vittoria per raggiungere una salvezza in una stagione così complicata.

L’imponderabile accade al minuto 65, quando l’arbitro assegna un calcio di rigore in favore dell’Arezzo e sul dischetto si presenta il capitano Neri, aretino e tifoso dell’Arezzo fin da piccolo, che vuole mettere un mattone sulla salvezza; il tiro è fiacco, il portiere lo respinge e Menchino si sente crollare il mondo addosso; non ci crede, piange, esce addirittura dal campo, mentre Nedo Settimelli in telecronaca lo consola: “…non è colpa tua Menchino, non è colpa tua”………poi i fotografi con una pacca sulla spalla lo rimandano in campo, Carboni scatta sulla fascia e guadagna un angolo. Palla dentro che viene respinta, Mangoni la ributta in mezzo e Menchino, il figlio di Arezzo, si inventa la rovesciata dei sogni con le lacrime agli occhi. Minuto 67esimo del 9 giugno 1985 il mito avvolge il Comunale e tutta Arezzo.

Oggi Menchino ha 67 anni, ma sembra sempre il solito capitano che vedevamo in campo. È in grande forma e ama parlare dell’Arezzo, anzi quando lo senti pronunciare quella parola, trasmette una passione ed un amore, che andrebbero insegnati a scuola ai bambini. Il suo attaccamento alla maglia amaranto è lo stesso da sempre. Fa venire la pelle d’oca!

“Sono nato a Sant’Andrea a Pigli, ma a 7 anni con la famiglia ci siamo trasferiti al Villaggio Gattolino; all’epoca si giocava sempre per strada ed era lì che gli osservatori delle squadre venivano a pescare i giocatori più interessanti. Ed infatti alcuni osservatori della società “Mazzola” mi videro e mi portarono nella loro squadra. Fino agli allievi sono rimasto alla Mazzola e poi sono passato all’Arezzo, facendo la trafila in amaranto, fino alla prima squadra.

“Da ragazzo seguivo con passione le partite dell’Arezzo ed i miei idoli dell’epoca erano i vari Farina, Benvenuto, Incerti, Tonani e Parolini e, guardandoli giocare pensavo se un giorno sarei riuscito a giocare in quello stadio (Il Comunale) come facevano loro. Non ho mai avuto, invece, un riferimento tra i giocatori della serie A, perchè per me c’è sempre stato soltanto l’Arezzo e ho sempre pensato esclusivamente all’Arezzo”.

“Ero un centravanti arretrato, quello che oggi chiamerebbero il falso nove; tanto per rendere l’idea ai più giovani un giocatore alla Mancini, alla Baggio, ovviamente con le dovute proporzioni, ma che amava muoversi e giocare anche accanto ad una prima punta, tanto che ho avuto vicino grandi centravanti quali Gritti e Tovalieri”.

“Dopo aver fatto una ventina di partite in B con l’Arezzo, nel 1973 sono stato mandato in prestito ad Empoli, poi Massese (2 anni) e 3 anni a Reggio Emilia sempre in C, poi passai al Como, ma ad ottobre del 1979 tornai ad Arezzo voluto fortemente da Giuliano Sili che venne a Como a prendermi e per me fu una gioia immensa”.

“ E da lì cominciò un grande ciclo che ci vide vincere la Coppa Italia di C, il campionato di C e trascorrere molti anni in B, guidati prima da Angellillo, l’allenatore cui sono più legato, insieme a Riccomini. Il vero segreto di quegli anni meravigliosi, oltre ad essere guidati da grandi uomini, è legato all’ossatura storica di quella squadra composta da bravi giocatori, ma soprattutto da amici veri, (Mangoni, Pellicanò, Zandonà, Minoia, Butti ecc) che hanno vissuto insieme gioie e fatiche e si aiutavano in ogni momento. È stata una bellissima storia!”

“Nel 1983/84 (anno in cui l’Arezzo finì il girone di andata terzo a due punti dalla capolista) ci mancò un pizzico di fortuna ed un centravanti prolifico, altrimenti con quel gruppo storico di giocatori e la solidità societaria dell’epoca, saremmo andati in Serie A”.

“Non mi manca di non aver mai giocato in Serie A, perchè io ci volevo andare con l’Arezzo. Durante la stagione 1983/84 avrei avuto l’occasione di andare in A (Genoa e Cesena lo avevano richiesto), ma io ed il presidente Terziani decidemmo di farmi rimanere ad Arezzo perchè per me c’è sempre stato e sempre ci sarà soltanto l’Arezzo. Io rifarei trecento volte la carriera che ho fatto nell’Arezzo perchè come da bambino io vedevo e vedo solo l’Arezzo”.

“Quando ho appeso le scarpe al chiodo, ho allenato un paio di anni ad Arezzo ed uno a Massa, ma ho lasciato velocemente perchè il mondo del calcio per me era soltanto da giocatore, non da allenatore né da dirigente”

“La situazione attuale dell’Arezzo la vedo bene perchè mi pare ci sia adesso una società forte che, però, per rimanere sulla cresta dell’onda e per migliorare deve investire nel settore giovanile ed avere una programmazione a medio-lungo termine (4 o 5 anni), altrimenti non si dura nel mondo del calcio. Magari può anche capitare di andare in B, ma senza programmazione non si va molto lontano. Nell’Arezzo degli ultimi anni non vedo a livello tattico un Menchino Neri e poi devo dire che, nel calcio di oggi, tranne rari casi (Cutolo, Luciani, Foglia)  i giocatori cambiano ogni anno e rimane difficile per i tifosi ricordarsi tutti quelli che sono passati, mentre se pensiamo a quelli che giocavano 40 anni fa ce lo ricordiamo tutti perchè c’era un’ossatura ed all’allenatore veniva lasciato il tempo di lavorare”.

“La cosa più bella nella mia carriera calcistica è stata quella aver indossato questa maglia amaranto per tante volte, cui sono legato come fosse una seconda pelle, da aretino vero”

E noi, dopo oltre 30 anni, rimaniamo sempre legati a Te, Grande Menchino!! E’ stato un onore avere un capitano come Te!!

a cura di Ferrero